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Lorenzo Bises, dal libro su Milano al Barbour: “Non cerco i trend, sono loro che trovano me”

Lorenzo Bises su Instagram parla di tour militari e ceralacca, ha scritto un libro su Milano ed è andato al Festival di Venezia con uno smoking vintage. Mentre della Regina dice che…

di Beatrice Anfossi | 11 Settembre 2022
Foto: Instagram @lorenzobises

Lorenzo Bises, una laurea in Storia dell’Arte e una passione smodata per le figure femminili del passato, è uno dei content creator più interessanti e genuinamente appassionati che possiate trovare nel magico mondo di Instagram. Solo nel 2022 ha pubblicato un libro sulle bellezze di Milano scoperte in bicicletta, Milano Mon Amour (Vallardi Editore) ed è stato invitato al Festival di Venezia da Cartier. Nel mezzo, tantissimi tour militari – così li chiama lui – a spasso per l’Italia, sempre stories alla mano.

“Non sono uno che cavalca i trend, cerco di rimanere fedele a me stesso e ogni tanto i trend trovano me”, mi ha raccontato in un’intervista che parla di ansia da prestazione social, di smoking vintage indossati sul red carpet e di come si sarebbe vestita Lady Diana nel 2002. Perché ovviamente tutto è partito da qui, dal valore simbolico della monarchia britannica nel giorno in cui tutti ci siamo resi conto che il suo simbolo più iconico era appena scomparso.

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La tua passione – sociologica e storica – per la monarchia e il suo cerimoniale è stata spesso argomento dei tuoi contenuti. Credi che mantenga un valore simbolico, nonostante i detrattori? 

Io sono attratto personalmente dal valore intrinseco della monarchia. So benissimo che è qualcosa di molto anacronistico, che può dare l’idea di una famiglia che porta avanti un privilegio di generazione in generazione, solamente per il sangue che scorre loro nelle vene. Bisogna considerare però che non sono “dei”, e anche la famiglia reale stessa sa benissimo di non essere politicamente importante. Semplicemente è lì e nei secoli c’è sempre stata. E ovviamente la Regina Elisabetta è riuscita a consolidare questo sentimento di affetto. Noi subiamo il fascino di una cosa molto lontana, si tratta alla fine di un fatto di costume e società al quale io guardo con ammirazione.

 

E questa tua passione come è nata? 

Da bambino sono cresciuto a Pane e Sissi, i film con Romy Schneider. Li sapevo tutti a memoria. E poi a casa dei miei genitori e dei miei nonni ho trovato moltissimi libri di storia legati a figure femminili che hanno lasciato il segno nella storia: da Paolina Bonaparte a Caterina la Grande, Elisabetta I e poi la stessa Elisabetta II. Sono state tutte donne che hanno dovuto combattere contro un mondo totalmente maschilista che le voleva in due modi: o madri o suore. Seppur in una posizione privilegiata – perché non erano certo contadine – sono riuscite a farsi ricordare nei secoli per il loro valore anche politico, in un mondo dove la politica era totalmente maschilista. Mi ha sempre affascinato questo loro ruolo.

 

 

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Senza dubbio queste donne e i reali in generale non hanno avuto soltanto un ruolo politico. La Royal Family britannica si può dire sia stata una vera e propria trend setter anche in fatto di stile. Pensi che questa influenza si sia conclusa con la morte di Elisabetta II?

Allora, secondo me sì. Si è chiuso un capitolo importante, frutto di una generazione che non ci appartiene più. La regina è nata nel 1926, sua madre era una donna nata alla fine dell’Ottocento. E poi credo che sia comunque uno stile che rimane chiuso all’interno della famiglia reale, perché una ragazza della nostra età non ambisce a vestirsi come loro, per colore, per fogge, con i loro cappellini e i cappottini super fit. Diverso invece è il loro modo di vestire nel privato, da cui io sono sempre stato molto affascinato. Barbour, pantaloni infilati negli stivali, foulard legato in testa: lo stile british per eccellenza. Tutto comunque è frutto di uno studio molto preciso, niente è lasciato al caso.

 

Beh sicuramente non improvvisano nulla, però forse è proprio quello il loro fascino. 

Sì, hanno comunque i loro gusti. Anche Kate Middleton l’ha dimostrato tantissime volte. Sicuramente sono stati trend setter: io penso al Barbour e penso alla Regina. E a Lady Diana. Perché senza dubbio i nostri genitori sono stati fortemente influenzati dallo stile di Diana, che è eterno ancora oggi. Però noi abbiamo un’idea di Lady D ferma fino al 1997: noi la consideriamo un’icona della moda, ma sicuramente avrebbe fatto anche lei degli errori di stile. Probabilmente avrebbe indossato le scarpe con il plateau e la borsa baguette. Invece il suo stile rimane cristallizzato negli anni Novanta, quindi ora che tornano quegli anni ovviamente torna anche lei.

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Foto: Instagram @lorenzobises

 

Torniamo al 2022: tu lavori con i social media, hai un podcast e una newsletter. Che rapporto hai con la comunicazione del 2022 e con la sua frenesia?

Questa è una bella domanda, ho un rapporto che ormai posso definire alla pari. So benissimo dove posso arrivare e quali sono i modi di comunicazione che non mi appartengono. Sicuramente non sono uno di quelli che sanno cavalcare i trend. Sono alcuni trend che, ad un certo punto, incontrano il mio modo di essere. Ti faccio l’esempio del Barbour: io l’ho sempre indossato, e poi nel 2018 mi sono ritrovato a parlare di Barbour in un momento in cui stava ritornando in auge. A volte è così che io sfrutto i trend, ma non sono disposto, per come sono fatto, a rincorrerli ad ogni costo. Penso di avere creato negli anni una community che mi assomiglia, e che certi contenuti se li aspetta. Anche le nuove piattaforme, per me sono un test ma so già dove sarò più forte e più me stesso.

 

E poi bisogna considerare l’elefante nella stanza, ovvero il fatto che il creator usa nella maggior parte dei casi piattaforme che non gli appartengono (come Instagram o TikTok) e che potrebbero sparire da un giorno all’altro.

Il mio proposito del 2021 era proprio uscire da Instagram: è nato il podcast e poi la newsletter, che ovviamente rappresenta una nicchia nella nicchia. Volevo allontanarmi dall’angoscia numerica dal non crescere abbastanza. Volevo smettere di essere un numero all’interno di una cerchia. La newsletter, in particolare, è nata in un momento in cui ho deciso che avevo voglia di dire le cose a modo mio. Non l’ho impostata come un appuntamento settimanale, desideravo schema libero e pagina bianca. E questo mi sta ripagando tantissimo, oltre a permettermi di avere un approccio più sano ai contenuti.

 

Di esprimerti come vuoi e quando vuoi.

Sì, anche per completare il flusso della comunicazione. Avevo notato nell’ultimo anno e mezzo che Instagram tende ad appiattire tutto. Io magari parlo di una cosa importante per me e ci metto molto impegno, ma sono vicino a una persona che fa uno scivolone enorme. Tu sei subissato di contenuti e immagini e rischi di non cogliere il valore di nulla. Il podcast e la newsletter hanno bisogno di una certa dedizione e volontà di approfondire per essere ascoltati o letti, una persona si prende del tempo per dedicarsi solo a quello. Mi piace l’idea che ci sia la giusta attenzione.

 

In effetti Instagram, e forse anche la frenesia in cui viviamo, ha finito per incentivare un atteggiamento di passività e superficialità.

Credo che non sia colpa né dell’utente né del creator: è semplicemente il modo in cui la piattaforma è stata concepita. Ad esempio, più contenuti fai e meno vieni visto. Però non tutto può essere raccontato in quattro storie e quindi in un minuto. A volte ci vuole quella giusta attenzione, che nel mio piccolo sono riuscito a trovare.

 

Foto: Instagram @lorenzobises

 

Proprio sul tema di uscire dal loop, tu sei anche approdato in libreria con Milano Mon Amour, un libro che ti porta alla scoperta delle bellezze di Milano. Come è nato?

Ho perso il lavoro a luglio 2020 e ho cercato di somatizzare un periodo non troppo felice della mia vita prendendo la bicicletta e sfruttando il tempo a mia disposizione per riscoprire Milano e dintorni. Non è stato per me cavalcare un trend che stava per arrivare – quello dei profili e dei contenuti su Milano – ma semplicemente un modo di proseguire quello che avevo già iniziato, addirittura dai tempi di Snapchat. Il libro è stato l’evoluzione di questa mia propensione al racconto: la casa editrice mi ha notato grazie a un utente che mi seguiva e quindi ho iniziato a scrivere. Ovviamente ho scritto della mia Milano e del mio punto di vista, con parte della mia famiglia e della mia storia. Non è una guida su Milano, soltanto il racconto di Lorenzo.

 

E della Milano del 2022 che mi dici?

Io Milano la amo, è la città a cui sento di essere destinato. Ma proprio come con una persona a cui vuoi bene, sono anche molto critico. Al momento trovo che stia diventando una città troppo esclusiva ed elitaria. È come un amico che si è montato la testa, dopo un successo arrivato magari con fatica, che però può portare anche alla deriva. Ecco, Milano oggi per me è così. Eppure non è fatta soltanto di cene esclusive, inviti, influencer e gift. Mi piacerebbe che fosse molto più aperta, non soltanto a chi ha le possibilità economiche per accedervi. Quando ero ragazzo io non esisteva questo tipo di frustrazione: dall’impennata degli affitti, a tutto il resto. Milano è bello se la vivi soprattutto dal punto di vista sociale e culturale, se sacrifichi questo aspetto non ne vale la pena.

 

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Cambiamo città: Venezia. Sei stato invitato da Cartier a calcare il red carpet della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica e hai deciso di indossare uno smoking vintage. Direi in linea con il tuo personaggio.

Venezia è stata un’esperienza straordinaria, nata quasi per caso. Cartier mi ha chiesto se avessi voglia di fare il red carpet con loro, e io ho deciso di farlo a modo mio. Il fulcro di tutto è sempre: come ci si veste? Era il mio primo red carpet, non mi sarei mai presentato con qualcosa di folkloristico, come se volessi approfittare di quella situazione per avere più visibilità di quanta ne meritassi. Lo smoking ce l’avevo, era di mio nonno ed è del 1946, ho dovuto comprare soltanto un paio di pantaloni neri, che ho trovato al mercato del giovedì di Sarzana a tre euro. È stata una scelta spontanea. Non è una posa, ma semplicemente il modo in cui mi comporto anche nella vita quotidiana. E sono contento perché chi mi segue ha riconosciuto una narrazione che mi appartiene.

Foto: Instagram @lorenzobises

 

E poi hai raccontato in qualche modo la tua storia.

Sì, per me i vestiti rappresentano sempre un ricordo, un anno, un momento. Lo smoking di mio nonno per me ha un valore incredibile: pensare che un capo attraversi 76 anni, è una vita. Per di più è un capo che non tutti possiedono. Proprio perché ho questo privilegio, me ne prendo cura come se fosse parte di un museo e ho scelto di celebrarlo in un frangente importante, come il mio primo red carpet.

 

Se invece avessi potuto o dovuto scegliere un brand che ti vestisse, su chi sarebbe ricaduta la tua scelta?

Per affetto e per le mie ridotte possibilità – non credo mi aprirebbero le porte di Dior (ride) – penso che avrei chiesto a Caraceni, un simbolo della sartoria milanese. Abbiamo un rapporto che è nato anche per affinità elettiva e i suoi abiti raccontano una storia. Tra l’altro una storia legata anche allo smoking di mio nonno, perché il primo Caraceni (fondatore dell’omonima sartoria) ha lavorato anche con Giuliani, che è il sarto che ha cucito lo smoking di mio nonno. Alla fine tutto torna.

 

Qual è invece la collaborazione che ti ha reso più fiero fino ad oggi?

Uno dei più grandi riconoscimenti per me è stato lavorare con Barbour, perché da sempre fa parte del mio lessico familiare. L’ho raccontato a lungo, poi è arrivato il primo #giftedby e infine abbiamo fatto in collaborazione una puntata del podcast. Significa che le storie che si raccontano e la passione con cui lo fai in un certo senso premiano. Mi sento molto fortunato perché sono arrivato a traguardi importanti con brand di grande valore e allo stesso tempo molto affini a me.

 

Se invece dovessi sognare in grande, a chi punteresti?

Senza dubbio Chanel (ride). In realtà nel mio Olimpo dei big sono in tre: oltre a Chanel, che stimo come donna – per quanto controversa – per il suo ruolo all’interno della storia della moda, Missoni, perché i brand per me partono sempre da un heritage e soprattutto dalle persone che li hanno creati. E infine Thom Browne, che credo abbia uno stile incredibile e soprattutto mette in atto un tentativo costante di disarcionare la moda maschile. Anche sui red carpet.

Foto: Instagram @lorenzobises

 

A proposito di red carpet, che cosa ne pensi della polemica che ha travolto gli influencer invitati a Venezia?

Io credo che piano piano si capirà che è importante richiedere uno sforzo da parte di tutti, perché rimane la Mostra del Cinema e visto che il red carpet è finalizzato alla proiezione del film in anteprima è giusto richiedere agli influencer una narrazione che vada oltre al make-up, al red carpet e ai vestiti.

 

A volte viene come l’impressione che il cinema passi totalmente in secondo piano.

Sì, sono d’accordo. Anche in questo aspetto credo che la community giochi un ruolo importante, nel chiedere all’influencer un feedback. Perché c’è un interscambio continuo e la community costituisce un ago della bilancia fondamentale in questo lavoro. Mi sembra sciocco non concludere la narrazione complessiva, considerato che il red carpet è un passaggio che porta alla proiezione. Sfatiamo però anche il mito che gli influencer se ne vadano senza guardare il film, forse dovrebbe spettare al brand pretendere un racconto un po’ più completo. Secondo me stiamo andando verso quella direzione.